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Parole di cibo: Alessandro Garzillo

Pubblicato da Raffaella Fargion in data
Parole di cibo: Alessandro Garzillo

Alessandro Garzillo è uno chef che ha girato il mondo, lavorando e dirigendo cucine di altissimo livello. Per come si è evoluta la sua carriera questa intervista avremmo potuto farla al telefono, su due fusi orari diversi e in mondi distanti. In realtà l'abbiamo fatta un sabato mattina, al telefono nella tranquillità della sua casa e con la sua bimba in sottofondo. E questo è ciò che più colpisce dello chef, la sua umanità, il modo in cui racconta la sua esperienza e il suo lavoro in maniera semplice e spontanea. 
E l'umanità è anche il valore che sta, insieme alla qualità della sua cucina, alla base del suo ultimo progetto: l'Atelier Alessandro Garzillo, un'accademia del gusto con una forte attenzione al sociale.

La filosofia della tua cucina, fusion is confusion, mi fa venire subito in mente un altro concetto molto in voga negli ultimi anni: la disruption. Distruggere per trovare il nuovo. È un processo necessario?

Noi non distruggiamo, piuttosto riproponiamo in maniera attuale. La scomposizione di un piatto significa cercare la maniera di proporre gli stessi gusti in modo diverso. Per esempio, i miei pizzoccheri – correva l’anno 2001, quindi un bel po’ di anni fa – della faccia del pizzocchero non avevano niente. Eppure, in bocca, chiudendo gli occhi, il pizzocchero era esattamente ciò che veniva in mente. Una pasta di patata, una salsa di grano saraceno, una fonduta di verza e chips di bitto... la proposta era diversa, ma il gusto era quello conosciuto. La stessa cosa ho fatto con il risotto e l’ossobuco: ho fatto un raviolo con pasta all’uovo, con dello zafferano e la gremolada già inclusa, la farcia all’ossobuco, una crema di riso allo zafferano a spirale sul piatto e chips al parmigiano, che fanno da parte croccante.

Per fare questo ci vuole una profonda conoscenza del piatto originale. Io sono di corrente marchesiana, e una cosa fondamentale che il Maestro ci ha insegnato è che si parte sempre dalle basi della cucina, bisogna conoscere la ricetta tradizionale e capirne tutti i dettagli, studiarla, dopodiché si può iniziare ad azzardare una versione, una scomposizione, sempre nel rispetto del piatto originale. L’importante è che i gusti in bocca siano rispettati.

Di fatto in cucina non c’è più niente da inventare, anzi, c’è stato un forte ritorno alle origini. Noi “giovani” – ndr: il virgolettato è farina del sacco dello chef, non lo farei mai! – vogliamo riproporle a modo nostro, magari con degli impiattamenti un po’ alternativi, e questo ci fa poi tentare strade nuove.

 

Adesso che la disruption l'abbiamo messa da parte – e meno male! – spiegaci cos’è per te fusion is confusion.

Io vivo di contrasti, e ciò che metto nel mio piatto è funzionale a questo. Il piatto è fatto per raccogliere del cibo, e tutto deve essere pensato per essere mangiato, anche la foglia di decorazione, o la granella particolare messa per creare colore.
Un piatto solo molle non chiama una reazione del palato, per questo vado a creare una parte croccante per stimolarlo. Oppure in certi piatti azzardo gli accostamenti dolce/salato, o l’agrodolce. Per me questo è fusion, la fusion è la mescolanza di culture diverse e di sapori diversi che si incontrano nel piatto. Penso che noi, come cuochi, costruiamo la nostra cucina in base al bagaglio culturale che abbiamo. Io ho girato il mondo per lavoro – Asia, Stati Uniti, Caraibi... - e questo lo porto nel mio modo di cucinare.

 

Pensi che questa filosofia nasca e cresca con l’esperienza?

Un cuoco non può avere identità se non ha esperienza, se non gira. L’esperienza è il nostro bagaglio culturale, non solo dal punto di vista professionale. Andare a vivere all’estero ti forma a livello umano e personale. Impari a stare al mondo, incontri culture nuove, anche culinarie, diverse, che devono servirti per poi creare la tua identità. Un cuoco, prima di dire “io faccio una cucina così”, deve sapere e conoscere cosa significa “una cucina così”. Il Maestro diceva che un cuoco deve essere affamato  – oltre che amare il duro lavoro – di cultura, non può essere ignorante e bravo in cucina. Lo chef deve avere conoscenza del mondo; mostre, giornali, libri...

La cucina a certi livelli è un’arte, e gli artisti ignoranti per definizione non possono esistere...

Alcuni ormai si definiscono chef e non sanno neanche riconoscere un quadro, o leggere un giornale. Io ho sempre avuto la fortuna di lavorare con chef dai grandi valori, oltre che dalle grandi capacità, e questo mi ha insegnato più di tutto.

 

L’approccio culturale dovrebbe avere spazio anche nelle cucine casalinghe? Si tende a banalizzare forse, a cucinare solo per mangiare...

Io a casa non cucino di solito, tranne rari momenti in cui mi vengono degli spunti che voglio subito sperimentare, generalmente mangiamo cose molto semplici. Però sicuramente bisognerebbe avere la conoscenza di ciò che si sta mangiando, dell’alimento in sé. Oltre a cosa dovremmo mangiare ovviamente, che alimentazione dovremmo tenere. Conoscere prodotti diversi – per, esempio, adesso vanno di moda molti cereali, legumi – informarsi. E questo vale anche per lo stesso zafferano, che ha dei valori nutrizionali importanti, sarebbe bello sapere come si può utilizzare per esaltare alcuni piatti.

Non solo risotto quindi.
Ma certo. Se uno fa una zuppetta di pesce, fatta bene, e ci mette due pistilli di zafferano, le dà quel tono che va a cambiare completamente la preparazione. In Spagna usano lo zafferano tantissimo anche nei dolci, con dei risultati interessanti. È una spezia favolosa, però bisogna studiarla.

 

L’offerta dell’atelier è rivolta soprattutto a bambini e a ragazzi affetti da disabilità, focalizzandosi sull’aspetto sociale del cibo e della cucina. Perché questa scelta?
La mia passione per la cucina l’ho scoperta a 4 anni, con mia mamma preparavo delle gran merende per tutto il quartiere, c’era una vita molto diversa da quella di adesso. Che merende incredibili! A me piaceva aiutarla, scoprire nuovi ingredienti da mangiare. Lei, insieme a mio padre, mi ha dato la possibilità di conoscere il bello fin da piccolo, il bello della buona cucina. Ricordo che, da bambino, in un ristorante in Austria rimasi folgorato da una decorazione. Mi chiesi come fosse possibile farla, e questa curiosità mi ha sempre aiutato nel mio percorso.
Adesso le generazioni sono diverse, meno abituate a questi aspetti culturali, gli stimoli sono molti di più. Però facendo i corsi per bambini ho notato che la passione, l’interesse per la cucina sono ancora molto vivi.

Il primo laboratorio l’ho tenuto alla materna di mio figlio, su richiesta delle maestre, e il risultato è stato sorprendente: loro erano molto affascinati, ma per me è stato davvero un progetto bellissimo. Gli occhi dei bambini su di me, su quello che facevamo, la loro soddisfazione nella realizzazione di qualcosa. E così ho deciso di continuare.
I laboratori funzionano molto bene, noi offriamo stimoli diversi dal solito e loro staccano la testa dalla tecnologia, usano le mani e la loro concentrazione – lavorando per obiettivi. Sono convinto che sia un’offerta davvero importante, non basata sulla performance ma sull’esperienza.

Questo vale ancora di più per i ragazzi con disabilità, loro si buttano a capofitto. Abbiamo un ragazzo sordo che vive chiaramente in un mondo un po’ tutto suo, ma da quando viene ai corsi ha dimostrato davvero l'amore che ha per la cucina. Studia, si informa tantissimo. Il nostro rapporto è stato faticoso all’inizio, ci abbiamo messo un mese a entrare in confidenza, era molto scettico ad aprirsi, ma poi si è sciolto, si è fidato. E paradossalmente sono migliorati anche i suoi rapporti con gli altri a scuola. Abbiamo anche una bambina autistica che è un portento, quando è in cucina con sua mamma si mette la divisa e la aiuta con dedizione e impegno. Per me il sociale è importante, credo di essere stato molto fortunato nella vita e penso che se uno riceve tanto a un certo punto deve dare indietro qualcosa. Per me è una scelta di vita. Ogni bambino è gioia, e così incontriamo la gioia tutti i giorni.

 

Durante il primo lockdown – marzo 2020 – hai anche intrapreso un progetto per la comunità con Varese News, come è andato?
Il progetto è nato da una domanda che mi veniva posta privatamente: le persone mi scrivevano per chiedermi cosa potevano cucinare. Ho capito che c’era bisogno di sentirsi parte di una comunità e di combattere la noia, così abbiamo dato il via alla creazione di ricette pensate su ciò che le persone avevano nel frigo. Il riscontro è stato altissimo, nei primi giorni abbiamo ricevuto circa 70/80 email.
Poi sono arrivate le richieste
delle mamme che cercavano ricette da fare insieme i bambini, per occupare le lunghe giornate. Mi è tornata in mente mia mamma che, quando chiedevo attenzione, mi metteva a impastare. E mio figlio non è stato da meno; quando mi ha chiesto “Papà, ti posso aiutare?” è nata la fase due del progetto: le ricette per bambini fatte col bambino. Un successo!

Hai avuto il tuo da fare in questo lockdown allora...
Per me il lockdown è stata un’occasione per rallentare i ritmi e dare spazio al progetto dell’atelier, che era lì da tempo ma non aveva mai avuto modo di prendere forma. Avevo già rallentato con la nascita del primo figlio, per non perdermi niente della sua crescita. Con il lockdown è arrivata la possibilità di fermarsi di nuovo a riflettere e decidere a cosa dedicare nuove energie.

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